Nulla- Parte III





Il mondo è fatto di scontenti perché l’uomo non ha centrato la sorgente della sua felicità. L’astro brilla nel cielo e la terra sussiste perché si muovono: il moto è la vita dell’universo. L’uomo è pienamente felice solo se accende e tiene vivo il motore della sua vita: l’amore. Anche colui che si dice felice perché ha contratto un buon matrimonio, perché ha ereditato, perché vive di lusso, di caccia, di divertimenti, esperimenta presto o tardi dei vuoti nell’anima, immancabili. Il disgraziato invece, a cui tutto sembra negare la vita, se si mette ad amare, possiede più del ricco e gode sulla terra la pienezza del Regno dei Cieli. È una verità, è una realtà.

(Lubich, Chiara. Meditazioni Città Nuova)

Era il 1956. Il neonato giornale «Città Nuova» – agli inizi un semplice ciclostilato – muoveva i suoi primi passi per mantenere collegati quanti erano in qualche modo venuti a contatto con una nuova spiritualità che stava sbocciando nel giardino della Chiesa e che trovava in una giovane ragazza di Trento – Chiara Lubich – il suo centro propulsore. Se si sfogliano i numeri di quella rivista, degli anni 1957-1959, ci si accorge che il giornale accoglie di volta in volta una piccola finestra intitolata “Meditazione”. Non ha firma, ma i lettori colgono presto che quella paginetta sgorga da un luminoso Ideale, tutto evangelico, focalizzato sul desiderio di contribuire a realizzare sulla terra il testamento di Gesù: «Padre, che tutti siano uno» (cf. Gv 17, 21) (...)  I “like” di quella pagina sono tali che nasce spontanea, presto, l’esigenza di raccogliere quei testi in un piccolo libretto, agile, che tutti possono portare con sé. Nasce così la prima edizione del libro Meditazioni. E con essa nasce la stessa casa editrice Città Nuova. È il 1959. Il volumetto raccoglie 58 testi di Chiara Lubich, da lei scritti tra il 1947 e il 1959. Alcuni di questi scritti, nati talvolta come semplici appunti, commenti a frasi del Vangelo, pagine di diario o pensieri comunicati ai primi membri del Movimento dei Focolari, hanno poi cominciato a circolare in modo informale, sotto la veste di dattiloscritti o ciclostilati; hanno quindi visto una prima pubblicazione sulla rivista «La Via», o in «48 Ore d’Unità» come “Parole di Sapienza”, poi su «La Rete» e, infine, sul giornale «Città Nuova». Altri scritti, di carattere più narrativo, sono stati invece redatti da Chiara come veri e propri articoli per il giornale «Città Nuova». Il libro Meditazioni ha raggiunto ora la 29ª edizione in lingua italiana, con oltre un milione di copie vendute in tutto il mondo. Conta infatti traduzioni in quasi trenta lingue, tra cui il polacco, il greco, l’ungherese, il coreano, l’arabo, il cinese, il bengalese. (Maria Caterina Atzori,  Meditazioni (Italian Edition) Città Nuova.)

 "La Via", "48 Ore d'Unità" e via dicendo sono sempre la rivista Città Nuova, che nei suoi primi anni cambia ripetutamente nome. Di fatto Chiara si autopubblica, o, ancor meglio, i discepoli raccolgono i suoi scritti sparsi come non furono in grado di fare quelli di Socrate. Ma dobbiamo riconoscerlo: "Meditazioni" è veramente un piccolo successo editoriale. E non è strano che sia così.

Proviamo a ritornare all'esempio che abbiamo riportato nell'incipit.  “L’amor che muove il sole e l’altre stelle” è il famoso verso finale della Divina Commedia, che probabilmente Chiara ha in mente quando fa riferimento al moto della terra e degli astri. Ma per Dante l’amore di Dio è una forza naturale che pervade l’Universo, ogni creatura le risponde secondo la sua capacità; esistono infiniti amori, che, in un’altra bellissima immagine del Paradiso dantesco, sono come tante navi in viaggio verso l’unico, immenso porto di Dio. Questo sì che è “il seno del Padre”, nel senso che è proprio un golfo dove approdare, liberamente. 

Gli uomini di Chiara, invece, non conoscono l’amore: si perdono in cose vane, come il lusso, la caccia, i divertimenti... Dando per scontato che Dio non possa essere, ovviamente, anche in queste cose; e tra queste cose, ricordiamocelo, Chiara ha infilato "un buon matrimonio": inauguriamo così bene la vocazione dei focolarini sposati (1953)?
L'amore vero non è certo il loro: è uno solo, difficilissimo da ottenere, però tale  da riempire "i vuoti d'anima", da far godere "la pienezza del Regno dei Cieli"; ma c'è una buona notizia, è l'uomo stesso ad avviare il motore di quell'amore. Questo miscuglio di godimento e di infelicità, di colpevolizzazione e, al tempo stesso, di forte esaltazione, è il fascino di "Meditazioni": tu, lettore, non hai capito nulla della vita, e per questo ti senti infelice; ma puoi metterti ad amare, ed io sono qui per insegnarti l'amore. La sicurezza di Chiara traspare dalle frasi secche, lapidarie. 

Il tono di "Meditazioni" non comunica affatto quel "luminoso Ideale" che ci vede l'Atzori: è piuttosto cupo, anche se il contenuto dei testi è incentrato sulla scoperta del Padre amoroso e sulla ricerca della santità. Un certo fondo di pessimismo, se non addirittura di "disprezzo", è dato dall'insistenza di termini come "scontenti", "disgraziato", "negare la vita". E' Chiara quella scontenta, si direbbe, e la cosa è interessante, se si cerca di incrociarla con i suoi dati biografici. Se gli scritti risalgono al '48-'59, si tratta del periodo dell'indagine del Sant'Uffizio, dell'esperienza del Paradiso, che ha interrotto di malgrado, e soprattutto del suo trasferimento a Roma da Trento. 
E' l'atmosfera della città, si direbbe, ad avere un impatto negativo sul suo stato d'animo. Per quale motivo? Difficile dirlo. 

Ma quello che può inquietare noi lettori di "Nulla", che oramai inseguiamo Chiara da molte storie, è l'enfasi negativa che viene data ai "vuoti d'anima", come se fossero un'anomalia, un'orribile disgrazia in cui rischiano di cadere i peccatori, e non una condizione perfettamente normale, che qualunque individuo può sperimentare almeno una volta, anzi, deve. I vuoti d'anima sono "cose della vita, vanno prese un po' così", forse è anche un bene che la vita abbia dei momenti di incertezza, di fragilità, di mancanza di senso. Forse è addirittura il suo bello. Ma non per Chiara: al Regno dei Cieli lei assegna, come prima qualità, la "pienezza". 


A Roma nel 1950 Chiara andò ad abitare in un appartamento di proprietà di Tommasa Aliquò alla Garbatella. C'era una cappellina e le focolarine ne fecero una centrale della carità e della povertà a cui approdarono giovani da tutta Roma. (...) Dopo qualche mese essi (sic) si trasferirono in casa Veroj a Ostia. Anno di attività intensa in cui Chiara e le focolarine parlarono da per tutto, ogni giorno, da cantine a Montecitorio. Prima dell'estate il comm. Alvino acquistò per le pope un appartamento a Roma, in viale XXI Aprile. Incontri con anime avvenivano spesso in case particolari, dove una focolarina spiegava la Parola di vita del mese e narrava esperienze apposite. (Igino Giordani, Storia di Light) 

Il primo appartamento, nel quartiere popolare della Garbatella, ricorda quello in piazza Cappuccini; poi, invece, il cambio di vita di cui abbiamo già parlato: meno poveri e più altoborghesi, più conferenze e predicazioni? "Esperienze apposite" significa che i focolarini sono passati dalla spontaneità ad un format precostituito di propaganda? E chi organizza loro l'agenda degli incontri? Sono quelle "case particolari" che ispirano a Chiara il riferimento a "lusso, caccia, divertimenti"? L'ascesa "dalle cantine a Montecitorio" è una girandola di eventi che la sfinisce, ma anche la esalta? Gli Alvino, che le comprano l'appartamento, la invischiano in un mondo a cui non avrebbe voluto appartenere? Chiara non parlerà mai di una sua eventuale delusione per la "Suburra", ovvero l'intreccio morboso tra Vaticano e alta società romana più o meno corrotta, né del fatto che la Chiesa sia divisa in fazioni e condizionata dalla politica. Sembra non arrivare mai a pensare che anche le indagini sul suo Movimento possano essere legate a giochi di potere tra le mura vaticane. Su una cosa è perentoria: mai criticare la gerarchia ecclesiastica, per fede assoluta, ma anche per opportunismo. 
E poi c'è Igino Giordani.

.. Si intensificò la collaborazione con Foco, la quale fu come un incontro di divino (Chiara) e di umano (Foco). L'uno s'introdusse nella vita dell'altra ad attingervi energia di soprannaturale, l'altra si introdusse nella vita di lui, per scoprire miserie della convivenza su largo raggio. Invece di chiudersi nella solita contemplazione, attivata dall'assistenza ai poveri, ella fu indotta ad aprirsi all'umanità intera interessandosi ai principali problemi- le principali angustie del suo tempo. Quell'intervento di Foco nello sviluppo dell'Ideale fu come una richiesta aggressiva dell'umanità che abbisognava delle forze dello spirito. Così in quella reciprocità stabilitasi, Chiara intervenne nell'ottobre 1949, con uno scritto di quattro fitte pagine nella strutturazione programmatica de La Via, il settimanale fondato e diretto da Foco, sostenuto finanziariamente anche da Luigi Alvino. Ella ne criticava la mancanza di unità nei temi trattati ed era vero, perché il direttore- lo scrivente- cercava di amalgamare le varie correnti che convergevano, spesso rissando, verso la Democrazia cristiana in politica. 

A proposito de La Via, il primo maggio 1952, mentre nell'ufficio io scrivevo un articolo, Chiara si sedette accanto a me e disegnò il mio volto, con una precisione e una luminosità, nella semplicità, da farmi restare stupefatto. Pensai ancora: se lei avesse coltivato l'arte e la filosofia e la politica o qualunque altra disciplina, sarebbe riuscita magnificamente.  (Igino Giordani, Storia di Light) 

Ritrarre un uomo mentre è assorto nel lavoro è un gesto molto intimo, ma lasciamo perdere, non è nemmeno necessario approfondire questo aspetto. Giordani, in tutta la parte finale di "Storia di Light", si premura di dirci che Chiara è la sua divina maestra, priva di qualunque scoria di umano, e difatti lo comanda a bacchetta in tanti piccoli episodi, come quando si permette di criticare la linea del suo giornale (finanziato da Alvino... Ma chi è e dove vuole arrivare Alvino?) dopo essere stata invitata a scriverci. E, naturalmente, per essere divina, deve restare sublimemente ignorante, guidata da Igino a scoprire, dal nulla, le malefatte della convivenza umana. 
Non lasciamoci ingannare: di fatto è Giordani che, come scrive con sincerità, SI E' INTRODOTTO nella sua vita, destabilizzandola, imponendole la direzione da prendere, trasferendola dalla sua città natale, convincendola a lasciare i poveri per predicare alle masse. E notare che l'aiuto ai poveri, nella sua ottica, non serve ad aiutare i poveri stessi, ma ad "attivare" la "solita contemplazione". Meglio che Chiara si attivi per le "masse", che si faccia venire delle visioni formidabili per loro. Che queste masse siano dei possibili, futuri elettori della Dc, fa venire la tristezza. 

Ce ne sarebbe abbastanza per rendere Chiara scontenta. Che cos'è, questo Ideale? Cos'è il carisma, se chiunque le passa accanto glielo chiede in prestito per lavorare ai propri scopi? Che cos'è Silvia Lubich, una paladina o piuttosto una capitana di ventura, una che offre il suo esercito di lanzichenecchi invasati, i popi devotissimi, al nume cattolico di turno? 

E come se non bastasse, Chiara non è una stupida. A mio avviso si rende perfettamente conto che a Roma, ben lungi dal rimanere sulle alte vette del Paradiso di Tonadico, è capitata in una farsa borghese; quella grottesca, triste, ma umanissima, che caratterizza le storie di Alberto Moravia. Un vecchio articolo della giornalista Fiamma Nirenstein contiene un'intervista a Brando Giordani, figlio di Igino, che è scomparso nel 2012 (qui siamo nel 1999). Leggendolo, tono frivolo compreso, si può avere un'idea di come fosse trattato Giordani a casa propria.


Innanzitutto abbiamo imparato che quel mondo si chiama "generone romano prossimo al Vaticano e padrone di Roma" (per i lettori non di madrelingua italiana: "generone" nel senso di classe sociale importante, ma detto con ironia, ovvero di persone un po' volgari). E Igino Giordani ci vive in mezzo, relegato in un angolo della sua casa. Amato, rispettato da tutti, venerato come una reliquia... Ma a chi si rivolge Brando, come reale punto di riferimento? Allo zio fascistone e amante della bella vita. Igino si preoccupa che vada a messa, molto meno per i meccanismi di nepotismo con cui il figlio si fa strada (si noti, a questo proposito, la comparsa di Montini, che a quanto pare non è soltanto lo zio di Eli Folonari, ma molto di più). Anzi, Igino stesso si è fatto strada grazie a raccomandazioni, e ha raccomandato Alcide De Gasperi, tutto questo per loro è perfettamente naturale.  Igino Giordani non fa fare né a Brando, né agli altri figli, la vita che molti focolarini imporranno alle loro creature, e nemmeno i nipoti di Chiara saranno tenuti a seguirli.  I focolarini sono il Paradiso e l'estasi di Giordani, con cui tutti i membri della famiglia lo lasciano giocare, mentre si fanno allegramente gli affari loro; per la verità la moglie Mya si permette di essere gelosa, ma questo meriterebbe un capitolo a parte. Oserei dire che Chiara è, per Igino, il suo "Personal Jesus":

Feeling unknown
And you're all alone
Flesh and bone
By the telephone
Lift up the receiver
I'll make you a believer
I will deliver
You know I'm a forgiver
Reach out, touch faith
                                         (Depeche Mode, Violator, 1989)

E così, invece che con la Lubich e con Giordani, abbiamo meditato con Gore e Gaham, ma meglio loro, ve l'assicuro, di tanta roba che girava ai tempi in cui il nostro voleva tenere in piedi la Dc. E anche che gira adesso. 

Ora, per chi non è stanco per la lunghezza del post, concluderò con una meditazione di Chiara che mi sembra significativa. Preciso che è tratta da "Scritti spirituali", la grande antologia che Città Nuova dedicò alla Lubich tra il 1978 e il 1993, raccogliendo tutte le sue pubblicazioni precedenti. 

(... A proposito, ma perché qualunque pensiero scritto da Chiara deve essere elevato al rango di “meditazione”? Frammento, diario, sfogo, appunto, riflessione, divagazione, considerazione, argomentazione… Flusso di coscienza, parole in libertà, versi sciolti… Delirio, scrittura automatica… No, qualunque cosa sia fuoriuscita dalla sua penna andrà meditata in religioso silenzio.)


Se il giorno dei morti ti rechi al Verano vedi una distesa ster­minata di tombe. E verso sera, al palpitar della notte, s'accende per ogni salma un lumicino. Una tomba comune raccoglie un nume­ro senza numero di morti e per ogni morto una favilla. Numero sen­za numero quelle luci, simili ad uno squarcio della via lattea calato in terra.
Passano i giorni ed ogni dì conta a migliaia quelli che più non sono.
C'è un giorno stabilito per ognuno. E verrà il giorno mio, il tuo, quello per tutti.
Un lumicino in più accanto ai tanti. Qualche giorno di pianto e di cordoglio dei vicini, poi torna la corsa della vita uguale a prima. E accanto al pianto tuo uno sfrenato jazz nel bar; un bianco fiocco sulla casa di fronte; l'urlo della sirena della croce rossa che dice pericolo, e il botto d'uno champagne che annuncia nuove nozze. Vecchi randagi, appoggiati a portoni tarlati, signore imbellettate, emblemi di vanità.
Questa la vita.
Ma se le stelle hanno il loro nome, non molti lumicini del Vera­no dicono una voce.

Son morti! morti... ben presto senza nome.
Son morti perché vollero la vita.
Son morti perché in vita non morirono.


C'è invero il coraggioso che affrontò la morte e fu pronto sul suo nulla a lasciar vivere il Signore.
Quegli vive nella gloria eterna e nella imperitura memoria dei mortali. (
Chiara Lubich, Scritti spirituali, Città Nuova)


Considerando che Chiara, all'epoca, non doveva avere ancora dei familiari defunti a Roma, presumibilmente ha accompagnato qualcuno al Cimitero Monumentale del Verano, e questo è l'amorevole sguardo con cui contempla la gente sepolta intorno a lei. Vi è piaciuta la citazione delle "signore imbellettate, emblemi di vanità"? Eh, eh, ma certo che ho scelto proprio questa meditazione per quello! (cfr. https://tanyaemarfisa293.blogspot.com/2023/11/nulla-parte-ii.html)

La nostra Chiara è assetata di gloria, come gli eroi di Omero, vuole sopravvivere alla morte attraverso le sue imprese memorabili. Colui che riesce a vivere “nella gloria eterna” è “Il Santo”. Ritorna alla mente padre Casimiro, con la sua storia di San Francesco, che si sente replicare dalla Lubich: “Voglio anch’io questo fuoco d’amore, voglio portarlo nel mondo”. Imperiosa, la richiesta: “Voglio" diventare una santa, perché non voglio morire. 

Tornando ai contemporanei di Chiara, quelli sepolti al Verano … “Sono morti perché non vollero la vita. Sono morti perché in vita non morirono”. Eh, oddio, ma  cos’hanno combinato di male, costoro? Gente che ascolta il jazz “sfrenato” (lo dicono sempre, che la matrice del rock è satanica), gente che si sposa e osa stappare lo champagne; e poi c’è nel mezzo qualcuno che ha fatto un figlio, tanto per ribadire il sospetto, che affiora anche da altre meditazioni, che a Chiara la famiglia ispiri una certa "noia" moraviana. 

Credo di avere capito perché questi soggetti sono definiti con tanta durezza “morti” dalla dispensatrice di Amore. Sono persone "indifferenti", come direbbe sempre Moravia, troppo ciniche per lasciarsi commuovere dalla predicazione luminosa dell'Ideale. E allora dedichiamo loro quella oscura. 
Ma forse sono anche quel genere di persone che direbbe “No grazie, signora Lubich; il suo Ideale è affascinante, ma per me eccessivo, non sono interessato/a a seguirla nel suo Movimento.” Persone che stanno bene con se stesse, amano ciò che fanno, anche se è umano, non sentono il bisogno di “superarlo” per approdare ai vari gradi dell'inesistenza. 

Ve ne accorgerete, della fine che farete, stolti. "Non hanno saputo morire abbastanza a se stessi" è esattamente la frase con cui Chiara Lubich, in un'intervista, ha "benedetto" i focolarini che osano lasciare il Movimento. 


Prossimo post: Nulla, Parte IV "Inesistenza" 

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